Morto appeso nelle Forche! – prima parte

Giuseppe Corina, ‘u Mallaro, morto appeso nelle Forche!

Quando si svolge una ricerca genealogica, per comprendere la vita degli avi e per indirizzare nel verso giusto le ricerche, bisogna sempre fare i conti con l’epoca in cui essi hanno vissuto.

Le mie ricerche si sono spinte fino ad identificare persone vissute all’inizio del 1800, la maggior parte delle quali abitavano quella Calabria che Luigi Maria Greco, nel suo libro ANNALI DI CITERIORE CALABRIA DAL 1806 AL 1811, descrive così:

La Calabria, estremo della Italia Inferiore, abbondante di maestose montagne, di pingui pascoli, di campi feraci, di pregevoli produzioni naturali, anco nei tempi di non molto anteriori a quelli che ci faremo a discorrere, possedeva doviziose selve, tra le quali primeggiava la Sila: i più dei sui abitatori stanziavano in piccole terre e villaggi montani e boscosi: mancava di agevoli strade e per al territorio lucano, col quale confina, e per alla metropoli del reame; né aveva traverse dagli uni agi altri municipi inferiori, e da questi ai paesi più ampii ed alle città, capi delle province comprese da tutta intera quella vasta regione, la quale, se meno soggetta a terrestri scuotimenti, sarebbe stata più popolosa e più florida. Però tornar dovevano in essa molto difficili le fazioni di eserciti grossi ed ordinati, prencipalmente se ignari dei luoghi, come stranieri. Né, oltre le trecento miglia posta in sul mare poteva ella temere notabili offese dalle armate; ché le sue riviere sono irte di sassi e di scogli, sono sottoposte ai venti di maestro e di libeccio; sono, dalla Fossa di San Giovanni in fuori, mancanti di porti.”

Fra il 1806 e il 1811 la Calabria contrastò ferocemente al nuovo regime francese opponendo irosa resistenza in ogni angolo della provincia.

Nei vari Paesi si svolsero vere e proprie battaglie di guerriglia urbana con lo scopo di rovesciare il vincitore di turno.

Chi ha scritto la storia ha suddiviso la popolazione in patrioti e briganti: i primi erano quelle persone favorevoli all’insediamento del nuovo Regime Napoleonico nel Regno delle due Sicilie; i secondi preferivano il “vecchio” governo Borbonico.

Acri, che sorge ancora ai piedi della Sila, è stata la sede di alcuni di questi episodi e nel Libro, appena citato, di Luigi Maria Greco, si racconta anche quanto avvenuto nel mese di agosto 1806:

In Acri, grossa terra, ricca, industriante, prossima alla Sila, si voleva dai patrioti [persone favorevoli al nuovo regime francese – NdA] vendetta di grave taglia, che non senza saccheggio, aveva riscossa dalle case di Matteo Capalbo e Piero Antonio Iorio la massa forestiera dell’apriglianese Petrone, e di Giacomo Pisano da Pedace, molto favorita dagli accesi popolani.

Erasi questa colà spedita da Gernaliz [Comandante dei ribelli favorevoli ai Borboni – NdA] giorni innanzi, richiedendogliela Antonio Rosa, acrese anco egli, sacerdote e capitano di volontari, fra’ quali noveravansi tre suoi germani – Si voleva vendetta di sacco ed incendio commessi a danno di Antonio Capalbo da altra paesana massa di Elia – Si voleva vendetta di perquisizioni contro essi patrioti, che erano stati cagione di nascondimento, di fughe, di terrore e di morti.

Però il giorno quattordicesimo di agosto, all’appressar dei Francesi, gl’irosi gentiluomini imprigionarono molti plebei, colpevoli i più, molti i sospetti.

Allo strazio presente, al timore di peggio, i carcerati mandavano alte querele, prima fomite nei loro parenti, ad intercessioni e preghiere, indi, tornato inefficace, anzi nocevole, il pregare e l’intercedere, ad eccitamento di rabbia popolare, quanto più cupa, tanto più intensa e impaziente di vendicarsi.

Erano concordi gli offesi, e certi i loro aiuti, scissi i gentiluomini e incauti, sia vana confidenza, sia stolta leggerezza – Pisano [che combatteva per la causa borbonica – NdA], che, dopo la disfatta di Moccone, occupava il bosco della Noce, non lungi da Acri, scongiurato da Tommaso e Carmine Fuscaldo, contadini oratori e legati dei prigioni, e certo di trovar valida seguela, accorre volenteroso e lieto dell’opportunità di acquistarsi merito e fama di liberatore degli oppressi – Forte di circa duecento, i più coloni di quel contado, assolta, inoltrata la notte, propizia perché oscura e minacciosa di tempesta – Procedendo gli altri per varii punti, egli con valido seguito di accorsi investe la casa dei Fuscaldo, sito di molto momento alla ritirata dei borboniani, perché in un angolo del paese.

Sorge un rombazzo più orrendo per solitudine e quiete, consueti dritti di quell’ora, progressivo per crescente plebe che vola a rinforzo degli assalitori.

La sorpresa aggravata dalle tenebre e dall’ignorarsi quale e quanto forte si fosse il nemico, rende nei gentiluomini tanto maggiore il sentimento della propria debolezza, quanto meno sono concordi: da debolezza nasce spavento, da spavento sventura.

Niuno intende a difendersi, ciascuno a nascondersi, e male, come suole per eccesso di fretta e paura al sopravvenire impensatamente di incognito nemico.

Però senza contrasto viene occupata tutta quella terra dalla massa forastiera, molto ingrossata dalla plebaglia paesana.

Solo casa Fusari arreca alcune offese, e resiste sino al dimani.

Quelli che la difendono, ricusano con arditezza di arrendersi.

Sciaguratamente, infine, cedono ai patti proposti dall’assalitore e guarantiti da Gennaro Baffi, amico alle due parti, sforzato, illuso ma non disleale e fallace – Tre degli arresi si archibugiano all’atto; il quarto, fuggitosi per scaltrezza, indi consegnasi al Pisano da un forese traditore; da costui, fatto libero a prezzo, viene da ultimo ucciso a tradimento da Tommaso Padula sugli occhi della madre sconsolata del trafitto; il quinto lasciasi in vita, solo perché cieco, vecchio infelicissimo in tanto eccidio dei suoi!

Dolorosi fatti, che confermano gli esempi di mancate fedi, di pietà apparente, di ricercata barbare nelle cittadine contese.

Sbarrate subitamente le carceri, la plebe infuria ai racconti acerbi, ai lamenti gravi, allo spettacolo miserevole dei corpi pesti, laceri, sanguinosi dei liberali.

Avendo a duce gli offesi, e, per somiglianza di condizione, offesa ancora essa, con tumultuario impeto ed odio antico contro ai gentiluomini, dessi a frugare esse, campagne, tutti i sospetti luoghi, cupida di trovare i nascosti.

Pisano intanto, qual vindice supremo, appresta solenni sentenze, erette in sulla piazza un tribunale, chiamati a giudici quei di sua parte, e innalzati ferali roghi, compimento di estremi supplizi.

Videsi il paese diviso tra la barbara esultanza, le ingorde rapine, le minacce tremende dei prevalenti; e la mestizia profonda, le sofferenze inconsuete, il terrore immenso delle famiglie dei ricercati – Ma ecco apparire tra poco i già snidati dei veri nascondigli.

Miseri!

Prima, come per taglione, sono precipitati nelle prigioni, pocanzi stivate di popolani, e poi subitamente tradotti al cospetto del Pisano, truce e superbo.

Ed ei, mostrato ciascuno degli arrestati l’un dopo l’altro agl’invitati a giudicare, comanda che tosto si faccia giustizia.

Oltre i venti, parte dopo uccisi, parte feriti e parte ancora illesi, indistintamente sono arsi tra un confuso misto spaventevole di preghiere, di urli, di gemiti, di risa, di scherni, di bestemmie – Il fanatismo cresceva là come suole cotante ferocie.

Trovando la sfrenata gentaglia quel mezzo agosto, giorno della liberazione, sacro alla Vergine Assunta, riferisce la sua vittoria al patrocinio di lei, lei grida avversa a’ patrioti come increduli e ribellanti; a lei immola quelle vittime abborrite – Esiziale persuasione, anco altrove non insolita, ed in Acri più trasmodante, perché noverava allora assai incolto popolaccio.

Ivi, orrende a dirsi, uno Spaccapitta, prima brucia vivi parecchi; poi sereno, come per opera meritoria, mangia del pane unto di grasso umano, lodatore loquace, consigliero insistente, ma ricusato, a quel pasto nefando. […]

Jean Antoine Verdier

Il dì 30 di agosto le masse, sorprese dal Verdier [Generale dell’esercito napoleonico – NdA], tennero duro al primo scontro; poi con pochi danni ed aumento di sdegno, ricovrarono al solito nei boschi.

Quel soccorso, per parecchi innocenti fucilati nel furore della zuffa e per comun guasto arrecato al non tolto, parve flagello, massimo alla plebe, naturalmente più avversa ai Francesi, più povera, e più favorita dai corpi volanti.

Sicché fermò essa allora di maggiormente aderirsi a costoro; sperandone, oltreché risarcimento ai danni sofferti, difesa e favori.

Mentre accennavasi che diverrebbe più fiero il combattere nelle nostre contrade, cominciò fra noi ad attuarsi la legge degli 8 agosto sul ripartimento e sull’amministrazione delle provincie.

Palumbo, preside, rimase nella nostra da intendente.

Ma peggio di prima gli fu d’uopo operare a talento delle milizie; ché tutti gli ordini ecclesiastici e civili, prevalendo lo stato di guerra, dovevano cedere alla spada.

A satisfazione dei patrioti più offesi, e a scudo dei rimanenti e della sicurezza pubblica, credette il maresciallo provvedere col riaprire le commissioni militari e con renderle più severe del solito. […]

Tre anni dopo questo episodio, il 25 giugno 1809, la quindicenne Serafina Corina, mia antenata di sesta generazione, sposa ad Acri il diciottenne Santo Capalbo.


estratto dall’albero genealogico

Giuseppe Corina > Serafina Corina > Angela Caterina Capalbo > Carmela Luzzi > Rosa Zicaro > Rosario Greco > mia madre > io.

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